Renato Bruscaglia - L’immagine profonda di Valerio Volpini

Da  “La luce sui Pioppi” – Edizioni L’Astrogallo (1963)

Anche Renato Bruscaglia, della  «generazione di mezzo» – come Battistoni, Ciarrocchi, Morena, Gulino, Sanchini – è stato allievo di Carnevali e di Castellani ed a sua volta maestro di diversi incisori: Piacesi, Bompadre, Rossi, Volpini, perché ha insegnato nell’Istituto dove s’è licenziato non ancora ventenne.

Nato a Urbino nel 1921, si può dire che tutta la sua carriera s’è svolta nel clima della città anche se ha saputo sciogliersi dai moduli della tradizione scolastica per dar seguito alla propria invenzione. Una carriera che ha progredito con sicurezza ma senza badare troppo ad arrivare subito a quella fama che magari anche incisori meno dotati di lui o più giovani avevano saputo raggiungere. Non ripeterò per questo il lamento sulla situazione paradossale che vive l’artista in Italia restando in provincia ( e forse proprio perché da noi anche le grosse città sono «provinciali» nel modo peggiori) ma basti dire che Bruscaglia è stato trascurato. Non ricordo più quale critico militante parlando delle sue acqueforti esposte all’inizio a Roma abbia francamente chiesto scusa di non essersi accorto prima dell’importanza di lui; è comunque un episodio che dimostra che c’è ancora chi riesce a vedere dentro la ridda del mondo dell’arte. È però anche un sintomo della concitazione e dell’occasionalità con cui vengono stabiliti i bilanci perché Bruscaglia ha esposto in tante altre mostre, ha ricevuto premi in Italia ed all’estero. Non c’è che da augurarsi, quindi, che le occasioni (dalle Biennali ad altro) seguano per lui quel riscontro che merita ormai da parecchi anni.

Bruscaglia agli inizi ha sentito notevolmente la esperienza del lavoro di Morandi e ha poi sviluppato la sua rappresentazione figurativa in una forma originale, intesa soprattutto ad attenuare i termini drammatici e lirici della sensibilità. Motivi diversi e contrastanti che oggi, nelle grandi lastre, ha composto in una forma sobria, architettonicamente semplice ove gli elementi particolari del paesaggio si fondono in sintesi luminose ed in aperture ariose. 

Ho visto le incisioni preparate per la Biennale e vi ho trovato una misura più tesa della carica poetica, talvolta spezzata nelle acqueforti di qualche anno addietro, quasi che egli abbia ormai  trovato il giusto limite, il giusto raccordo dei motivi interni, insomma la pienezza della sua saggezza che non rifiuta certi dati forti e persino violenti, ma sa ordinarli senza impulsi improvvisi, sa, cioè ordinarli ancora prima di vederli segnati nella semplice grafia del retino. Si tratta sempre di paesaggi urbinati ma che non dicono più il tenero e talvolta fiabesco delle colline e dei casolari o delle vie della città ma la parte più scabra e meno caratteristica; i calanchi le ondulazioni dei monti, gli elementi della natura ove è più facile essere libero da quel tanto di suggestioni letterarie che un paesaggio amato (e nel quale è vissuto) può offrire anche attraverso le modificazioni della stessa memoria.

Se c’è una minor disposizione al lirismo nella concezione generale della rappresentazione anche il segno – lo stile e la forza del tratteggio e della morsura – ha acquistato una calibratura più robusta, ma senza perdere nel risultato ultimo quella apertura che non è leggerezza o superficialità di toni ma partecipazione più umana, più totale, alle cose.

Ma la storia dell’acquafortista Bruscaglia è di quelle, rare, che si leggono nella coerenza di un cammino continuamente in ascesa e riscontrato passo dopo passo. Un procedere illuminato da una intelligenza che non lascia assolutamente niente al caso o alle cosiddette improvvisazioni. È la conquista di se stesso di cui ci si accorge a prima vista verificando le modalità di ogni sua lastra. Ora riscuote il prezzo della scommessa fatta in tempi lontani, quelli della sua prima formazione: scommessa che ha vinto largamente o come si dice nel gergo sportivo, a braccia alzate.

Bruscaglia che negli anni cinquanta aveva tracciato il segno breve con una segmentazione priva di curve, pungente e sottile come la punta dei suoi bulini, sovrapponendolo per moltiplicare gli effetti tonali, ha poi prosciugato il variare di queste tonalità dando più spazio fra il bianco e il nero e optando per una funzione sempre più operante del primo.

Le stesse chiusure della lastra – nei suoi bordi regolari e ordinati – si sono come rotte all’invasione di un nucleo costruttivo (o di più nuclei) che fa da raccordo. Dove una volta l’incrocio dei segni  faceva quasi vibrare e brillare la compattezza dell’inchiostro raggrumato giungendo a toni raffinati man mano che si scioglievano in scansioni ordinate, ora c’è rapidità maggiore, una più scandita armonia e freschezza disegnativa. Se l’acquaforte è la sorella aristocratica (e bizzarra) del disegno, bisogna dire che Bruscaglia ha obbedito al suo eccezionale  talento di disegnatore per attribuirsi anche nell’acquaforte il massimo della propria libertà inventiva.

Voglio dire che se è vero che ci sono acquafortisti di significato che sono disegnatori mediocri per Bruscaglia un’acquaforte non è mai un’operazione di ripiego. 

Il segno incisorio, il bulino che si muove e si allunga in rapidità che scava più a fondo e nei paesaggi si nota sempre più largo il confine dell’orizzonte e sempre più alto l’infinito del cielo. Le prospettive si aprono quasi a far più sensibile l’influsso di quei colori che l’acquafortista ripete anche se gioca sempre fra il bianco e il nero. Il paesaggio urbinate è colto in quello che ha di più aspro e arido, di più scosceso e spoglio. Non è – per intenderci – quello ricco di alberi di Castellani ma quello dei tufi e dei calanchi che assediano un casolare disperso o nascosto da antiche querce sopravvissute: i monti e gli orizzonti verso l’Appennino toscano. Ma si fa per dire poiché, se pur c’è un riscontro naturale in uno sguardo meno legato alla geografia, l’incisione di Bruscaglia è espressionisticamente emblematica.

Nelle sue incisioni ci sono punti di convergenza e di approfondimento che, naturalmente, non sempre sono il centro dell’architettura descrittiva. Credo che lui sia un grande esperto di prospettive. Non so né come né quando le abbia realizzate ma in ogni acquaforte (persino in quelle che fermano uno scorcio della città; o in quelle brevi di misura ove navigano pochi segni come una pianura nella caligine) si esalta di questa ricchezza visiva che l’appassionato di stampe apprezza perché legge correttamente l’acquaforte: non come un  quadro ma come la pagina di un libro.

Naturalmente il confronto del cammino di Bruscaglia è tutto a vantaggio della libertà conseguita dopo gli anni che diremmo della formazione e dell’ammirazione dei maestri del Novecento. La peculiarità e l’originalità del suo essere «acquafortista-acquafortista» mi pare debba essere anche confermata dai permessi in «libera uscita» degli acquerelli: bellissimi e di grande vibrazione espressiva ma che non aggiungono nulla all’acquaforte ma sono essi, semmai, un’acquaforte che «ha preso il colore». Stupisce, in ogni caso, la chiarezza compositiva quando sembra che stia per staccare l’ormeggio (ma non lo fa; ed è giusto) dal figurativo per toccare una sorta di rarefazione astratta come mi è sembrato di scorgere in certe figurazioni interne della vecchia sconosciuta Urbino.

Il livello cui è giunto credo si debba misurare nella storia dell’incisione italiana (e non solo italiana ) del Novecento del dopo-Morandi e del dopo-Bartolini (ma come non aggiungere almeno un altro maestro, l’urbinate Castellani?)insieme a pochi altri di cui ho accennato all’inizio. E mi pare anche necessario aggiungere che ha assimilato un grandissimo mestiere sino a ridurlo al massimo della semplicità quasi a dimostrare che anche la difficoltà tecnica e i segreti del mestiere, il difficile rituale che esige l’acquaforte debbano essere superati e piegati perché possono costituire una remora alla pienezza di chi vuol scrivere la bella favola con il bulino.